VERZUOLO - Verzuolo, l'Oxygen Recording Studio e l'arte maieutica del suono

La "creatura" del musicista e produttore Paride Lanciani, dove ha lavorato anche l'amico Steve Albini, il produttore dei Nirvana

Steve Albini (al centro) con i Kash all’Oxygen Recording Studio di Verzuolo (Fotografia di Alex Astegiano)

Francesca Barbero 31/07/2022 09:04

Articolo pubblicato sul settimanale cartaceo di Cuneodice in edicola giovedì 28 luglio.
 
Paride Lanciani è musicista, produttore e fondatore dell'Oxygen Recording Studio di Verzuolo. Frontman dei Maniac Dujour e componente degli Slowdown Mercury, band nata durante il lockdown tra Chicago, New Orleans e Verzuolo, e di cui è uscito su tutte le piattaforme digitali, il disco d'esordio. Nello studio di Paride è passato anche Steve Albini, frontman degli Shellac e produttore discografico che, nell'autunno del '93, produsse In Utero, l'ultimo album dei Nirvana prima del suicidio di Kurt Cobain.
 
Le tue due anime di musicista e produttore discografico, si possono scindere o sono un tutt'uno?
"Sono due aspetti divisibili che si fondono in quello che è un lavoro unico. Ci sono due tipi di produttore: il produttore che è anche musicista e chi non lo è. Tra i due c'è una differenza abissale a livello caratteriale e nelle sfumature dell'approccio. Chi è solo un tecnico di solito è educatissimo con i musicisti, perfetto e molto preciso mentre chi è anche musicista ha delle tentazioni creative in più, portate dalle esperienze che ha alle spalle. La cosa più bella di essere un musicista produttore è il poter appartenere, per un lasso di tempo brevissimo ma molto intenso della tua carriera, al nucleo di una band o a un progetto sonoro a cui diversamente non ti avvicineresti. Entri nello spirito di quella band o progetto perché questo è un lavoro in cui devi entrare nell'anima del gruppo, cercare di pensare come pensano i suoi componenti e capire cosa stanno cercando. Di solito nella creazione di un disco i musicisti sanno già cosa cercano nella loro testa, la difficoltà è esprimerlo e comunicarlo. E tu devi aiutarli a tirare fuori la loro sonorità".
 
Quindi il tuo compito è far uscire quello che hanno dentro. Come un'arte maieutica del suono?
"È un lavoro delicato e un compito arduo e di grande responsabilità. Un conto è se sei un artista formato e con le idee chiare, in quel caso il mio compito è non 'sporcare' il tuo talento. Un altro se sei un emergente ancora in una fase di ricerca del suono. Per essere d'aiuto nella ricerca è fondamentale conoscere la persona, prima ancora del musicista. Per questo, prima di iniziare a lavorare sui suoni, parlo molto e approfondisco la conoscenza della persona perché dobbiamo capire bene che direzione prendere insieme. Se non ti conosco non posso arrivare all'essenza. Ogni artista ha un'esigenza specifica e ogni volta c'è un incontro da cui deve nascere un feeling con il produttore che va a toccare il lavoro sonoro, una conoscenza che si fa più profonda quando si entra nella creazione dell'opera. A volte, riuscire a rendere l'essenza di un artista può non soddisfare perché c'è chi si aspetta che il produttore migliori il suo sound o lo renda diverso".
 
Da come parli sembra che diventi anche tu un membro della band, a un certo punto.
"Sì è vero quello che dici. In quel momento è come se fossi un elemento aggiunto nella band. Ognuno fa la sua parte e, ad un certo punto, ti trovi a avere molta responsabilità e con il gruppo che ti sta dando fiducia. È un lavoro importante e per farlo al meglio vado nel profondo delle persone, prima ancora di scavare nel suono. E quando lavoro con le mie macchine analogiche, e il mio corpo va a interagire con loro, c'è davvero una fisicità come se stessi suonando uno strumento".
 
Quando nasce l'Oxygen Recording Studio?
"Nel 2010 ma l'avvicinamento alla registrazione è stato un percorso graduale iniziato a fine anni '80, in parallelo a quello di chitarrista. Dalle prime home recording sono passato alla ricerca di uno spazio più grande per far stare le strumentazioni (l'analogico implica un'invasione di spazio non indifferente) e per l'esigenza di accoglienza e ospitalità delle band. Da musicista ho fatto tesoro di tutti gli aspetti di disagio incontrati quando frequentavo gli studi per creare un posto dove stare bene".
 
Perché Oxygen?
"Beh la location offre una notevole dimensione naturale e di conseguenza parecchio ossigeno rispetto ai seminterrati bui, chiusi e soffocanti dove normalmente si registra. E poi, per me, è una boccata di ossigeno gestire questa struttura che è una risposta a quelle che erano le mie esigenze”.
 
Siamo seduti su queste poltrone e se guardo il prato e le sdraio, gli alberi e il cielo al di là della porta vetrata, mi sembra di essere in una villa americana di Wright. Almeno me la immagino così l'atmosfera lì dentro.
"Sì forse quella dimensione di cui parli c'è, anche se la casa non è nel suo disegno. Forse, inconsciamente, aspetti americani, legati non solo alla formazione musicale, li ho portati nello studio. Il polmone verde di sfogo è apprezzatissimo dalle band. Durante le sessioni di registrazione c'è un sovraccarico di tensione enorme perché stanno per materializzare un sogno e concretizzare tutti gli anni di lavoro e prove, e lo si vuole fare al meglio. Qui, quando stacchi, puoi uscire fuori e rilassarti, farti un caffè o dormire mezz'ora nel verde, insomma trovare un equilibrio senza lo stress del rumore e dello stile di vita metropolitano. La dimensione di rilassamento di cui l'artista ha bisogno nel momento in cui crea non va sottovalutata; certo è bellissimo il contesto underground metropolitano ma, in un equilibrio di lunga durata, può portare elementi di disagio nella lavorazione del disco. Ad esempio Albini ha prodotto "In Utero" dei Nirvana al Pachyderm Studio, dentro una foresta in Minnesota. La band era completamente isolata nello studio con una control room molto grande e una vetrata che affaccia su alberi e boschi. Un po' tipo qui".
 
Hai parlato di Steve Albini. Come l'hai conosciuto?
"L'ho conosciuto nel '99 e collaboriamo da più di vent'anni. Semplicemente l'ho contattato telefonicamente perché, all'epoca, la comunicazione via mail non era così diffusa. Ho chiamato parecchie volte e, quando finalmente ha risposto, gli ho parlato dei Kash, la mia vecchia band, dicendogli che volevamo registrare qualche pezzo da lui. Mi disse di mandargli qualcosa da sentire per potermi dare una risposta. Così feci e lo richiamai di nuovo diverse volte fino a quando mi disse che la nostra cassetta era nelle sue corde e che potevamo raggiungerlo. Volammo a Chicago per la prima volta e in tre giorni registrammo il nostro disco. Steve aveva appena costruito gli "Electrical Audio" dopo aver prodotto Robert Plant e Jimmy Page, nel '98, agli Abbey Road Studios di Londra. A Chicago in quegli anni c'era un bel movimento di crescita dell'underground al quale abbiamo avuto accesso facendo tour in U.S.A per una decina d'anni".
 
Com'è Steve Albini?
"È molto riservato e non concede mai molta intimità ai suoi clienti, condividere con lui certe esperienze è per pochi. Però è anche di una disponibilità inaspettata e a volte ti offre delle cose che non ti aspetti di poter fare con lui. Dopo un paio di anni che lo conoscevo andai con mia moglie a vedere i Fugazi, in un teatro di Chicago. Aprivano il concerto gli Shellac, la band di Steve. Non gli dissi niente perché pensavo poi di chiamarlo e dirgli che ero passato. A un certo punto mi passa davanti tra il pubblico e tira dritto senza salutarmi ma poi, notandomi, si ferma stupito e si raccomanda di chiamarlo la mattina successiva. Il giorno dopo ero nel suo studio dove c'era tutta la band che si preparava per la seconda data a teatro. Abbiamo passato una giornata fighissima insieme e la sera abbiamo visto il concerto dal backstage".
 
Qualche aneddoto con i Kash?
"Con i Kash eravamo headliner in un grosso festival di Chicago. Gli Shellac erano venuti a vederlo perché quell'anno erano i curatori dell'All Tomorrow's Parties in Inghilterra, evento importantissimo dove sono passati nomi come The National e Sonic Youth. Albini faceva le selezioni e la band insisteva per chiedere a Steve di farci suonare ma io non ero d'accordo perché ci conosceva, se ci avesse voluti nella line up. Comunque abbiamo fatto questo concerto davanti agli Shellac e la mattina dopo, quando passo a salutare Steve, prima di partire per la tappa in Michigan del nostro tour, mi dice 'Vi va di venire a suonare all' ATP?' e di essersi già consultato con la band al riguardo".
 
So che Albini è venuto nel tuo studio.
"Sì, abbiamo un buon rapporto di amicizia, anche se non in senso stretto. Prima che aprissi il mio studio gli chiesi di poter andare a Chicago e fermarmi da lui qualche giorno perché mi mancavano dei tasselli di conoscenza. Fu molto disponibile nel dirmi di andare, anche se lui non poteva starmi dietro. Stetti lì una settimana a prendere appunti e osservare. Un po' come stai facendo tu ora. E ogni tanto facevo qualche domanda. Dopo aver aperto il mio studio l'ho incontrato a un festival e ,in quell'occasione, gli ho chiesto di venire a 'benedire' lo studio e, visto che dovevamo fare l'album dei Kash, gli ho proposto di farlo da me. Ha accettato, sapendo che il mio studio punta sull'analogico nonostante un'apertura al digitale che lui, più estremo, non ha. È venuto qui e ha lavorato tranquillamente trovando anche dei difetti, essendo all'inizio, che ho poi risolto. È stata un'esperienza intensa e bellissima".

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