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    CUNEO - Thursday 05 June 2025, 09:06

    Caso Rosso, per la Cassazione non c'è prova del "metodo mafioso"

    Le motivazioni della sentenza che lo scorso febbraio ha annullato con rinvio la condanna per l'ex assessore regionale piemontese
    Roberto Rosso
    Roberto Rosso
    Non c'è prova che i due boss della 'ndrangheta si servirono del "metodo mafioso" per raccogliere voti a favore di Roberto Rosso: è una delle ragioni per le quali, secondo quanto si legge nelle motivazioni della sentenza, lo scorso febbraio la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna a 4 anni e 4 mesi di carcere per l'ex assessore regionale piemontese, che dopo l'apertura delle indagini, nel 2019, si dimise e fu allontanato da Fratelli d’Italia. Lo riporta l’Ansa: la Suprema Corte ha anche osservato che, proprio nelle settimane in cui si svolse la vicenda, il reato di voto di scambio-politico mafioso fu modificato.
     
    Il caso risale al maggio del 2019, in prossimità delle elezioni regionali, quando Rosso stipulò un accordo con due persone legate alla ‘ndrangheta in cambio di voti. Secondo la Cassazione, però, è emerso soltanto che i due "agirono non in quanto emissari o rappresentanti delle cosche di riferimento, ma quali soggetti attestati in tali ambienti, e perciò accompagnati da fama criminale". E non c'è nessuna prova che i due si servirono del "metodo mafioso" per raccogliere le promesse di voto a favore di Rosso (al quale, riporta ancora l’Ansa, il loro interessamento fruttò poche preferenze).
    
     
    I giudici della Corte d'appello di Torino affermarono che "la prova del ricorso al metodo mafioso non fosse necessaria, attesa la sicura appartenenza alla 'ndrangheta dei procacciatori e la relativa fama criminale". Ma gli Ermellini rilevano che, per valutare nel complesso la vicenda, avrebbero dovuto attenersi ai criteri della “vecchia” versione del voto di scambio politico-mafioso, che erano più restrittivi: invece, a quanto pare, seguirono quelli della nuova formulazione, varati con una legge del 21 maggio 2019 ed entrati in vigore solo l'11 giugno successivo.
     
    La presenza della 'ndrangheta a Carmagnola, in ogni caso, è dimostrata. È quanto si ricava dalle motivazioni della sentenza della Cassazione, depositate in questi giorni, sul maxi-processo Carminius, celebrato in primo grado ad Asti e in appello a Torino. Per i giudici è possibile affermare che a Carmagnola, 28 mila abitanti al confine con la provincia di Cuneo, "quanto meno dal 1991" si è radicato il gruppo della famiglia Arone. La consorteria è una "articolazione della cosiddetta 'ndrangheta delocalizzata, derivata dal clan Bonavota egemone nel territorio di Sant'Onofrio, in provincia di Vibo Valentia". Gli Ermellini aggiungono però che non è dimostrata "l'esistenza di una alleanza tra Cosa Nostra e la 'ndrangheta operante a Carmagnola". Il presunto rappresentante della mafia era stato indicato in Antonino Buono, un 67enne originario della provincia di Palermo, per il quale è stata annullata l'accusa: la Dda, sulla base delle testimonianze di due pentiti, sosteneva che l'uomo era "in posizione paritaria" rispetto agli 'ndranghetisti, per conto dei quali si occupava, in città, della gestione dei videopoker. Buono fu assolto in primo grado dal tribunale di Asti con una sentenza che la Cassazione ritiene condivisibile: mancano elemento che permettano di affermare che vi fosse un "rapporto di stabile e organica" collaborazione fra lui e i boss. 
    Redazione
    luogo CUNEO
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