Flotilla, Amajou racconta i giorni del carcere: “Botte e sonno negato. Ci hanno tolto anche l’insulina”
L’attivista braidese, tornato in Italia, parla di violenze già nel porto: “Un soldato distribuiva le bottigliette davanti alle telecamere e ce le toglieva subito dopo”Sono stati giorni di digiuno, di prigionia, ma anche di umiliazioni e maltrattamenti senza un perché. Abderrahmane Amajou, l’unico attivista della Global Sumud Flotilla in Piemonte ad aver seguito la spedizione fino alla fine, è rientrato in serata a Malpensa, accolto dall’abbraccio dei familiari e degli amici. Qualcuno è venuto anche da Bra, la città di cui il 39enne italo-marocchino è originario e dove è stato in passato consigliere comunale per il Partito Democratico.
“Sto cercando di riprendermi, ho perso cinque chili in cinque giorni” racconta. Il cibo c’era, ma lui ha scelto di digiunare: “Perché sapevo a pochi chilometri da me c’è un popolo che soffre la fame e il cibo che ci davano veniva tolto a loro”. Il penitenziario di Ketziot, l’Alcatraz israeliano, sorge nel deserto a pochi chilometri dall’Egitto e dalla stessa Gaza. Sono detenuti lì molti palestinesi, che gli arrestati della Flotilla non hanno mai incontrato ma della cui presenza erano ben consapevoli: “Si vedevano i loro segni sui muri: qualcuno ha scritto ‘ricordatevi di me’. I palestinesi in quelle prigioni vengono picchiati, violentati, qualcuno ucciso”.
Intimidazioni fin dall’arrivo: “Un modus operandi per mettere terrore”
A loro è andata meglio, perché i passaporti stranieri li proteggevano. Ma le violenze ci sono state: “Ci torturavano con la privazione del sonno a intervalli di ore, facendo irruzione armati e mirandoci addosso, o con i cani per fingere di contarci. Dopo due ore, magari, ritornavano e ci facevano scendere dal letto: ‘Mettetevi in ginocchio, alzate le mani’”. Qualcuno ha riportato lesioni alle braccia, qualcun altro è stato trascinato con le manette: “È un vero modus operandi per continuare a metterci terrore, sapendo che non possono uccidere o lasciare danni evidenti. Il nostro pensiero nelle carceri era ‘chissà come vengono trattati i palestinesi’”. C’era anche un altro pensiero, legato all’Italia: “Non sapevo che le piazze fossero così gremite di persone: l’ho chiesto alla console quando è venuta a trovarmi da Tel Aviv. Mi interessava sapere quanta attenzione mediatica ci fosse ancora su di noi e se l’Italia stesse ripensando alla sua relazione con Israele”.
Nessuno, dice, temeva il “bagno di sangue” evocato al momento dell’abbordaggio. Si voleva però evitare ogni eventuale strumentalizzazione: per questo, insieme ai cellulari, gli equipaggi hanno buttato in mare perfino i coltelli da cucina prima dell’irruzione israeliana. “Andavamo in pace e ci siamo formati su tecniche non violente. Però ci hanno tamponati con la motovedetta e ci hanno puntato addosso i fucili col laser” racconta Amajou, imbarcato sulla “Paola 1”. L’ossessione degli incursori, dice, erano le telecamere: “Le cercavano in giro per la barca, sapevano che per loro è l’arma peggiore, se le immagini arrivano in un Occidente amico”.
Arrivati al porto di Ashdod sono cominciate le intimidazioni: “Ho visto un soldato trascinare per i capelli un ragazzo italiano. Quando ha saputo che si doveva fare un servizio per i telegiornali ha smesso e ha cominciato a distribuirci bottigliette d’acqua. Poi ce le ha tolte subito dopo”. La scena più spaventosa, dice, è stata la requisizione dei medicinali: “Appena siamo arrivati nel porto c’era tanta gente che doveva prendere insulina o medicinali per la tiroide e altre malattie croniche. Hanno ritirato tutte le medicine e le hanno buttate nella spazzatura davanti ai nostri occhi, dicendo che se ne sarebbe occupata la farmacia del carcere. Non è mai successo”.
In tredici in una cella: “Spostati senza motivo, c’era chi dormiva in terra”
In cella a Ketziot, la prima notte, c’erano sette persone insieme a lui, tra cui lo spagnolo Thiago, uno dei leader della Flotilla: “Poi mi hanno spostato in un’altra cella, eravamo in tredici una notte. C’era chi dormiva per terra”. Nei pochi giorni di detenzione gli spostamenti si sono susseguiti: “Il sistema di cambiarti di gruppo non ha nessuna ragione logica, se non quello di umiliare: ci portavano via senza nemmeno dirci che ci avrebbero trasferiti di cella. Si diceva che era ‘per incontrare il dottore’ ma il dottore non si è mai visto, era una scusa”. Negli ultimi due giorni, ricorda, “abbiamo fatto uno sciopero per avere l’insulina, nelle celle 16 e 17 c’erano due diabetici che stavano davvero collassando. Solo dopo l’arrivo del giudice e dei diplomatici le cose sono cambiate”.
I sorveglianti si sono “ammorbiditi” anche quando si cercava di convincere tutti gli attivisti a firmare il foglio di via: “È arrivato un personaggio che chiamavano ‘il capitano’, forse del Mossad, che ha chiesto più volte di firmare: eravamo un problema politico perché sapevano che non potevano spingersi oltre, che siamo gente pacifica venuta lì per motivi umanitari. Per questione di principio molti di noi hanno scelto di non firmare, perché consideravamo illegale la loro operazione”. Il foglio di via si rifaceva a una legge del 1952 sull’immigrazione: “L’unica cosa su cui potevano fare davvero appiglio. Perché non ci hanno arrestati per ‘complicità con Hamas’, come ci accusavano di voler fare? Perché non esistono prove”.
C’è stato chi non ha retto alla pressione e il foglio lo ha firmato, uscendo dal carcere già il sabato: “Penso abbiano fatto bene se non se la sentivano, c’era chi aveva malattie croniche e non poteva rimanere ad aspettare. C’era anche chi doveva tornare a lavoro o dalle famiglie. Non biasimo chi si è sentito in dovere di firmare” dice Amajou. E l’Italia? “Crosetto ha fatto bene a inviare la nave di scorta, si trattava di proteggere barche che sono considerate territorio italiano. Sappiamo che l’Italia ha avuto un ruolo, così come la Spagna. Poteva fare molto di più ed è stato un peccato: si poteva arrivare fino al limite delle acque di Gaza, loro sono andati via a 150 miglia marine quando le acque territoriali iniziano a 12 miglia”.
“Tornare? Non penso. Il lavoro più importante è qui”
“Anche se ci fosse stato un blocco legale - spiega - questa era un’operazione legittima: lo dicono le Nazioni Unite nella convenzione sul diritto del mare. Israele aveva il dovere di farci arrivare a Gaza, poi avrebbe potuto controllare lì gli aiuti ed escludere quello che non voleva”. Ora c’è una nuova spedizione, di carattere sanitario, con nove imbarcazioni partite da Otranto e Catania: “Tornare a sfidare il blocco? Non penso di farlo. Ma il lavoro più importante, adesso, è da fare nelle nostre istituzioni: l’Italia può giocare un ruolo fondamentale nel Mediterraneo, ma anche sulla questione palestinese”.

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