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DRONERO - Friday 07 November 2025, 18:39

“Denunciare la mafia era la cosa giusta da fare. L’unica cosa da fare”

Il testimone di giustizia Marco M. ha raccontato la sua storia al Ponte del Dialogo: “La parte difficile viene dopo”. “Un eretico in un’Italia corrotta” lo definisce Mattiello
“Denunciare la mafia era la cosa giusta da fare. L’unica cosa da fare”
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Giovedì 6 novembre, presso l’Aula Magna dell’Istituto Comprensivo “Giolitti” di Dronero, si è tenuto un incontro intenso e partecipato dedicato al tema dei testimoni di giustizia, organizzato in collaborazione con Libera Cuneo all’interno del festival “Ponte del Dialogo”.

Protagonisti della serata Davide Mattiello e, in collegamento telefonico, Marco M.; insieme hanno scritto il libro Mi chiamo Marco e sono un testimone di giustizia (Einaudi Ragazzi, 2025), che racconta la storia, tristemente vera, del coraggio civile di Marco. A dialogare con loro la giornalista Barbara Morra.

Una scelta che cambia tutto

Marco M. è un giovane imprenditore siciliano che, dopo aver aperto una concessionaria nella sua città, si trova a dover affrontare le pressioni e le minacce della criminalità organizzata. Decide di non piegarsi, di denunciare.

“Non avevo messo in conto quella scelta” ha raccontato collegato telefonicamente con la sala. “Avevo già vissuto un’esperienza difficile con mio padre, ma credevo che le cose fossero cambiate. Quando ho denunciato pensavo: ‘Li arrestano e torno alla mia vita’. Invece la mia vita è cambiata per sempre”.

Da allora Marco vive sotto programma di protezione insieme alla famiglia. “Non sapevo nemmeno cosa fosse un testimone di giustizia” ha detto. “Ho perso tanto, ma non me stesso e non la mia dignità. Voglio che le persone sappiano che si può scegliere, anche quando la paura ti stringe il cuore”.

Una testimonianza semplice, diretta, che arriva come un pugno nello stomaco. Nel racconto di Marco c’è tutta la solitudine di chi denuncia, il senso di isolamento che può arrivare anche da parte delle istituzioni.

“Dopo la denuncia diventi quello strano” ha spiegato Marco. “Ti senti messo in discussione da tutti, persino da chi dovrebbe proteggerti. Ti rimane addosso un’etichetta. Ma per me denunciare era la cosa giusta da fare, l’unica cosa da fare”.

“Alle persone che si occupano di antimafia vorrei dire: bisogna essere più propensi all’ascolto”.

La differenza tra testimone e collaboratore di giustizia

Davide Mattiello è stato parlamentare membro della Commissione Antimafia e poi consulente della stessa, lasciando questo ruolo per scelta etica nel momento un cui è stata eletta presidente l’onorevole Chiara Colosimo. Oggi rimane consulente del gruppo parlamentare ed è responsabile del Dipartimento <> del PD in Piemonte.

Nella serata di ieri ha ricostruito con lucidità la storia normativa e civile che sta dietro alla figura del testimone di giustizia. “Marco è l’unico testimone di giustizia siciliano oggi inserito in un programma di protezione speciale con la sua famiglia” ha ricordato. “Questo dato ci parla della gravità della situazione, ma anche della solitudine di chi sceglie la verità”.

Mattiello ha spiegato la differenza fondamentale tra collaboratori e testimoni: i primi sono persone coinvolte in organizzazioni criminali che a un certo punto decidono di collaborare con la giustizia: a volte per coscienza e pentimento, altre per convenienza; i secondi, invece, “sono cittadini onesti che denunciano ciò che subiscono. Eppure, per anni, lo Stato ha tutelato prima i collaboratori che i testimoni”.

Solo nel 2018, con una legge frutto di un lungo lavoro parlamentare guidato da Rosi Bindi e a cui Mattiello ha contribuito, è arrivato il pieno riconoscimento giuridico per i testimoni di giustizia. Ma di strada ce n’è ancora tanta da fare, “non tanto a livello di leggi, che per quanto sempre migliorabili ci sono già, ma più a livello culturale”.

Rincara la dose, affermando giustamente che non dovrebbero nemmeno esistere i Testimoni di Giustizia, lo Stato non dovrebbe aver bisogno di un tale sacrificio per poter mettere in piedi il piano accusatorio nei processi: “A volte lo Stato si appoggia al testimone, perchè una persona che in tutti i gradi ripete i nomi aiuta senz’altro ad ottenere la condanna, ma mai e poi mai il testimone dovrebbe maledire il giorno in cui ha deciso di affidarsi allo Stato”.

Mattiello descrive il trauma di chi si trova a entrare nel programma di protezione per testimoni di giustizia, completamente sradicato dalla propria vita: “Viene garantita la sopravvivenza, ma la possibilità di trovare una vita libera, dignitosa, autonoma dopo anni di processi e di testimonianze, quella è tutta un’altra cosa”.

“Seguo queste storie da più di vent’anni e vorrei potervi raccontare almeno un caso di riscatto pieno, una storia di vita nuova e dignitosa dopo il programma di protezione. Ma non posso. Non ce n’è ancora una”.

Una ferita aperta

Il racconto di Marco, ha sottolineato Mattiello, è una “storia inconclusa”. Il padre, anche lui imprenditore onesto, “è morto un anno fa senza poter tornare nella sua casa in Sicilia, nonostante fosse il suo unico desiderio: è morto in cattività”.

Oggi Marco combatte un’altra battaglia, non contro la mafia, ma contro la burocrazia dello Stato, per permettere almeno alla madre anziana e malata di uscire dal programma di protezione e tornare a casa.

“Lo Stato non dovrebbe nemmeno farsele chiedere queste cose” ha commentato con amarezza. “Vorremmo che i cattivi fossero da una parte e i buoni dall’altra. Invece, spesso, non è così”.


Il sacrificio

Marco racconta di aver denunciato nel 2013, ma crede fermamente che la mafia da allora non sia affatto cambiata e nemmeno l’omertà delle persone. “Ho fatto condannare 15 persone e altre 8 sono ancora sotto processo al secondo grado di giudizio. Danneggiavano me e altre migliaia di persone in città: loro hanno respirato un po’, ma poi subito dopo sono arrivati nuovi estorsori. Eppure sono l’unico siciliano in programma di protezione”.

“Lo Stato non incentiva a denunciare, anzi: ogni giorno mi arrivano nuove restrizioni, come se dovessero farmi pesare la mia scelta”.

A questo punto arriva una domanda da parte di Marco che pesa come un macigno: “Mi chiedo, la Procura ha piacere di ricevere la denuncia ma lo Stato meno? È una cosa che dopo 12 anni ancora non riesco ad accettare”.

“Il whistleblower non è un infame”

Nelle battute finali, Mattiello ha allargato lo sguardo, collegando la storia di Marco a quella di altri casi in cui lo Stato ha mostrato assenza e contraddizione: da Attanasio e Iacovacci a Mario Paciolla, fino a Giulio Regeni.

Non è mancato il riferimento alla vicenda della bomba sotto casa del giornalista Sigfrido Ranucci: “Basta ascoltare le audizioni in Commissione parlamentare antimafia o in Commissione di vigilanza Rai - ha ricordato Mattiello - per capire che sembra quasi più colpevole lui di chi gli ha messo la bomba sotto casa. Gli sono state rivolte accuse, insinuazioni, perfino il sospetto che quell’ordigno se lo fosse piazzato da solo. E quando la presidente della Commissione, l’onorevole Chiara Colosimo, ha definito quella bomba ‘un petardo, dei fuochi d’artificio’, abbiamo toccato il fondo”.

Mattiello ha chiuso con un appello culturale: “In Italia manca ancora una parola con accezione positiva per definire il whistleblower, chi denuncia il malaffare, chi non si piega. È assurdo che la nostra lingua, la più bella del mondo, non riesca ancora a nominare con rispetto chi sceglie di non voltarsi dall’altra parte”.

Monica Fissore
luogo DRONERO
L'intervista a Davide Mattiello
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Tag:
Davide Mattiello - Libera - Antimafia - Ponte del dialogo - Testimoni di giustizia
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