Aggressione e tentata violenza sessuale a Bra: "La paura non deve diventare pregiudizio"
L'intervento della psicoterapeuta Latika Dabbene: "Enfasi mediatica sull’origine straniera del responsabile. Si rischia di trasformare il crimine di un singolo in una colpa collettiva""Riceviamo e pubblichiamo.
A Bra, pochi giorni fa, una donna è stata aggredita e picchiata da un uomo con precedenti penali, che ha persino tentato di violentarla. È una notizia che colpisce profondamente, perché ci mette davanti a una verità difficile da accettare: la violenza può toccare le strade che conosciamo, i luoghi che viviamo ogni giorno, le città che sentiamo nostre. Pensare che qualcuno possa subire un trauma così grave nella propria comunità fa male, fa paura. Per fortuna, l’intervento tempestivo dei Carabinieri ha fermato l’aggressore. Ma, come psicoterapeuta, so bene che ciò che resta non è solo l’atto in sé: resta la ferita nella vittima, la paura nei cittadini, l’ombra che si proietta sul senso di sicurezza collettivo.
Quando leggo notizie come questa, però, mi interrogo anche su come esse vengano raccontate. Spesso, l’enfasi mediatica si concentra sull’origine straniera del responsabile, come se l’identità etnica o la provenienza geografica fossero la chiave per spiegare la violenza. Questo passaggio sottile – quasi impercettibile – rischia di trasformare il crimine di un singolo in una colpa collettiva attribuita a “chi viene da fuori”. La conseguenza? Paura, sospetto, diffidenza.
Dal punto di vista psicologico, la paura è un’emozione primaria che nasce per proteggerci, ma che può facilmente diventare terreno fertile per il pregiudizio. Quando la paura non viene contenuta, elaborata e compresa, si trasforma in diffidenza verso l’altro. È un meccanismo antico, che la sociologia ha descritto bene: di fronte a un pericolo percepito, la comunità tende a costruire un “nemico simbolico” su cui proiettare ansie e insicurezze.
Sui social media, tutto questo si amplifica. Le notizie vengono condivise in modo rapido, i commenti si moltiplicano, e lo spazio della riflessione si restringe. Troppo spesso, un fatto di cronaca doloroso diventa il pretesto per dare voce a stereotipi e insulti, generando un’ondata di rabbia che, invece di guarire le ferite, le rende ancora più profonde.
Non voglio in alcun modo minimizzare la gravità di quanto accaduto: chi commette reati violenti deve essere perseguito e punito con fermezza. La sicurezza delle persone è un diritto inviolabile, senza eccezioni. Ma accanto alla giustizia c’è un’altra responsabilità: quella del racconto. Informare senza cadere nella trappola dei pregiudizi è un atto etico, necessario per non alimentare paure ingiustificate e visioni distorte della realtà.
Dietro le statistiche e i titoli di giornale ci sono sempre volti, storie, emozioni. C’è una vittima che ha bisogno di protezione, una comunità che deve sentirsi sostenuta, e c’è anche una società che rischia di frammentarsi se il discorso pubblico viene inquinato da narrazioni razzializzanti. Come terapeuta, so che le parole hanno un potere profondo: possono ferire, ma possono anche guarire.
La domanda che dovremmo porci è: come possiamo proteggere le vittime e rafforzare la sicurezza, senza cedere alla tentazione di dividere? Come possiamo costruire comunità basate sulla fiducia e non sul sospetto?
La risposta sta nella qualità dell’informazione e nel modo in cui impariamo a guardare gli altri. La sicurezza non è fatta solo di leggi, pattuglie e controlli: nasce anche da relazioni sane, da fiducia reciproca, da empatia quotidiana. È fatta di quella solidarietà silenziosa che una comunità sa esprimere quando sceglie di non lasciarsi governare dalla paura.
Bra, come tante altre città, merita di sentirsi sicura. Ma una città sicura non è solo una città protetta: è una città che sa prendersi cura di sé, dei suoi abitanti e delle relazioni che li legano. Solo così potremo trasformare il dolore in consapevolezza, e la paura in forza collettiva.
Latika Dabbene
Psicoterapeuta

Cronaca